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Convento di Monterotondo

I frati cappuccini erano stati approvati dal Papa Clemente VII Medici a Viterbo nel 1528. Appaiono nei documenti di Monterotondo una trentina di anni dopo, il 27 novembre 1542, quando un certo Evangelista, vende agli Orsini una vigna in contrada san Salvatore per uso dei cappuccini.
II convento primitivo fu una piccola abitazione, costruita quasi di fronte al vecchio ospedale, nei pressi del Casale San Matteo.
Nel 1605 fu approvata la costruzione del nuovo convento in contrada San Restituto; nel 1609 la Comunità di Monterotondo comprò il terreno e iniziò la costruzione, affidata al Maestro milanese Antonio Del Grande.
Il Comune e la gente di Monterotondo hanno sempre seguito con molta partecipazione le vicende di questo luogo: ne hanno completato la costruzione, curato i restauri, favorito la permanenza dei cappuccini nel convento, anche durante la soppressione degli Ordini religiosi voluta prima da Napoleone e poi dallo Stato italiano.
Qui visse ed operò miracoli san Crispino da Viterbo dal 1703 al 1709. Esiste ancora il pozzo di acqua sorgiva che serviva al santo fraticello per innaffiare l’orto, situato a nord del convento.
Garibaldi fece del convento il suo punto di riferimento sia nel 1849 sia nel 1867: a qest'ultima data risale la scheggiatura del portale della chiesa, provocata da una cannonata sparata dal palazzo Piombino dai papalini contro i garibaldini accampati in convento.

Nell'antico refettorio si conserva la lapide che vi fu posta in occasione del passaggio di Pio IX il 6 ottobre 1853: si fermò a pranzo con i cappuccini, i quali in quella circostanza piantarono il grande pino che recentemente è stato abbattuto da un fulmine e sostituito con uno nuovo.
Qui i cappuccini del Lazio, nel 1884, aprirono il primo Seminario Serafico, che vi fu riportato nel 1946; nel 1934 vi fu istituito il corso di filosofia e nel 1938 quello di teologia.
Il 4 settembre 1930, il capo del governo Benito Mussolini venne ad ispezionare lo stato maggiore e i soldati accampati nel bosco. Nel 1934 arrivano le truppe tedesche in ritirata e poi molti rifugiati politici dell’una parte e dell’altra, mescolati mimeticamente ai cappuccini.
In questo momento difficile per tutti, i cappuccini s’industriano per salvare vite umane, per provvedere cibo e vestiario, s’improvvisano falegnami per costruire bare e seppellire i morti che raccolgono tra le macerie di Monterotondo e della vicina Mentana.
Uno di loro, fr. Bernardno da Castel di Tora, fu ucciso dai paracadutisti tedeschi mentre coltivava l’orto del convento, che venne saccheggiato e devastato.
Nel periodo della ricostruzione, i cappuccini procurarono e distribuirono tutto quello che potevano. Impiantarono cantieri di lavoro, colonie elioterapiche, pranzi per i poveri, centri ricreativi.
Attualmente riprendono cura, come sempre, dell’assistenza spirituale dei malati e dei sofferenti sia nell’ospedale cittadino che nelle famiglie, è fiorente l’Ordine francescano secolare e la Gioventù francescana. Con varie iniziative e collaborando attivamente con i parroci, favoriscono con umiltà e semp0licità la crescita umana e spirituale della popolazione.
La piccola chiesa è frequentatissima. Vi si conservano tele del secolo XVII (pala dell’altare maggiore e del coro) e del secolo XVI (Santa Lucia e Sant’Agata nel coro).
Suggestivo il piccolo chiostro con al centro la cisterna, che con l’acqua piovana, raccolta dai tetti e sapientemente filtrata, ha dissetato - oltre che i frati - il Paese in tempi difficili.
Il bosco è stato conservato con cura attraverso i secoli, con l'amore per la natura, caratteristico dei francescani, perché riconcilia con Dio e con gli uomini. Anche la popolazione, da sempre, è stata gelosa custode di questa rara oasi di verde, di serenità e di pace.

Dei 20 frati cappuccini nati a Monterotondo, vanno ricordati almeno due:
1. Benedetto Maria Federici (1751-Smirne 1814). Destinato giovanissimo nelle missioni dell’Isola di Madagascar, vi lavorò per 22 anni e vi ricoprì anche l’incarico di Prefetto;
2. Giuseppe Maria Checchi (1869-1942). Studioso ed insegnate di materie teologiche e filosofiche, ha curato con serietà ed impegno la stampa e alcune pubblicazioni di largo successo.

Per saperne di più:
Rinaldo Cordovani, I Cappuccini e Monterotondo, Rotary Club Monterotondo-Mentana 1984, 168 pp.

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Rinaldo Cordovani




P. Alberto Cruciani da Santa Rufina (1914 -2003)



E'stato protagonista di una pagina di storia di Monterotondo, che lui stesso narrò in un articolo apparso sul giornale “Il Tempo“ di Roma il 10 settembre 1965. Era nato a Santa Rufina (Rieti), entrò tra i cappuccini nel 1932. Fu ripetutamente nel convento di Monterotondo: vi frequentò gli studi di filosofia, vi fu Guardiano nel 1943. Vi tornò nel 1994 e vi rimase fino al 2002.




La strage di Monterotondo
(8-10 Settembre 1943)

Il caos avvenne all’improvviso. Potevano essere le 8 del 9 Settembre 1943. Qualche Stukas sfrecciò rapido e bassissimo, facendo crepita¬re la mitraglia. Subito dopo ne apparve un altro, poi due, poi molti e su tutta la zona di Monterotondo si vide un incalzante pioggia di paracadutisti.
Tra la popolazione, presa così alla sprovvista, ci fu un fuggi fuggi. Le case furono serrate e i rifugi si riempirono in un baleno. I contadini, sparsi per la campagna, si nascosero negli anfratti e nelle capanne, mentre su tutti pesava l’atroce ansia per la sorte degli altri congiunti.

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Monterotondo è una ridente cittadina che domina la valle del Tevere tra Via Salaria e Via Nomentana. A differenza di tutti i piccoli cen¬tri, non è il campanile del bellissimo duomo che svetta e vigila sul nucleo abitato, ma la torre, anche se dimezzata da un terremoto il cui ricordo è tuttora vivo tra i più vecchi, di un maestoso castello medioevale già degli Orsini e dei Barberini, sede necessaria e quasi naturale di numerosi uffici.
In questo “superbo maniero” aveva posto il suo Quartiere lo Stato Maggiore Generale per l’Esercito Italiano, nel 1942.
Tra la popolazione correva voce che, oltre il titolare, Generale Roatta, altri “capoccioni” spesso s’incontrassero a Monterotondo, e si facevano i nomi dei più alti papaveri italiani e tedeschi, oltre, bene inteso, a quelli di Umberto di Savoia e di Mussolini.
La ridente cittadina ostentava un’orgogliosa soddisfazione; gli ufficiali, alti e bassi, scintillavano nelle loro divise variopinte che facevano sospirare le ragazze del paese; dappertutto un brulichio di soldati; un nucleo di Marina per la stazione radio, un centro aeronautico con non so quali mansioni, altri numerosi corpi dislocati intorno intorno a distanza conveniente; ma fra tutti facevano spicco due compagnie, composte, si diceva, di figli di italiani all’estero e già facenti parte del battaglione “M” che tanto aveva fatto parlare di sé in A.S. La loro presenza, anche se non del tutto gradita (solo la inflessibile disciplina del Comandante riusciva a tenerla a freno), dava un senso di sicurezza, forse a motivo del loro armamento modernissimo e della leggenda che le accompagnava; ma, all’atto pratico, non avrebbe risposto all’attesa.
Nella sua storia secolare il bel palazzo medioevale mai era apparso un così autentico fortilizio. Chi tra i cittadini avrebbe potuto immaginare che da tanta fortuna sarebbe di lì a non molto scaturita un’immensa sventura?
Nel pomeriggio del 7 Settembre 1943 giunsero, ammiratissime, alcune camionette blindate, fresche ancora di fabbrica. La sera seguente, sul tardi, si notò un’animazione insolita, che sembrava contrastasse con l’euforia suscitata qualche ora prima dall’ambiguo proclama di Badoglio, che aveva fatto suonare a distesa le campane di tutta Italia: dal palazzo medioevale, Via Mentana, partiva un’autocolonna, scortata dalle camionette blindate arrivate la sera avanti da Torino; e con l’autocolon¬na partiva anche lo Stato Maggiore Generale per l’Esercito Italiano.
Nella ridente cittadina i soldati erano rimasti, di punto in bianco, abbandonati a sé stessi, ma con le loro divise e con le loro armi; nessuno aveva lasciato detto se, all’occorrenza, avessero dovuto combattere o meno. Ognuno avrebbe potuto scegliere a suo piacimento; e la scelta fu quella della disperazione: uccidere per non essere uccisi, precisamente come un po’ dovunque in Italia. E quando gli Stukas iniziarono il lancio dei paracadutisti nella mattinata del 9 Settembre, invano si attesero istruzioni dall’alto. Così s’incominciò a sparare di propria iniziativa: batterie antiaeree, mitraglie, bombe a mano…fucili da caccia; in breve fu un inferno. Ma cosa avrebbe potuto il coraggio disperato dei singoli contro forze manovrate e perfettamente equipaggiate? Tanto più che le due compagnie provenienti dall’A.S. sulle quali tanta fiducia era stata riposta, si arresero subito dopo le prime scaramucce; anzi ci fu chi disse di aver inteso un loro ufficiale gridare: Heil Hitler!
Il piano era stato studiato alla perfezione. I vari punti strategici, evidenziati sulle cartine topografiche, furono occupati d’impeto. Il Comandante di spedizione, un Maggiore sulla quarantacinquina, aveva posto il suo Quartiere nel Convento dei Cappuccini, come Garibaldi circa un secolo prima.
Con perfetto sincronismo fu iniziata l’operazione di avvicinamento alla Sede dello Stato Maggiore, validamente difesa da un pugno di Carabinieri. Nello smarrimento generale furono visti gruppi di nostri soldati fatti prigionieri da pochi tedeschi. Che dolore, che rabbia vederseli sfilare davanti, col solo grigioverde indosso! Ma chi avrebbe potuto loro muovere rimprovero?
Il sottoscritto ricorda di avere avuto più di un colloquio col Comandante tedesco. Scopo della spedizione era di fare prigioniero lo Stato Maggiore. Allora gli feci presente che questo era partito la sera avanti. Come era logico aspettarsi, non fui creduto, ma non mi persi d’animo. Alla fine si persuase della mia sincerità, forse anche a seguito di notizie filtrate per altre vie; e, con un moto di stizza, esclamò: “Ma allora perché ucci¬derci così?”. Infatti i morti furono tanti.
Il lancio dei paracadutisti mi sorprese nell’ospedale. Come per istinto uscii all’aperto per riceve i primi feriti: erano uomini e donne, grandi e piccoli, militari e civili, italiani e tedeschi. Dovevo aver assunto l’aria di chi comanda se un ufficiale tedesco mi si avvicinò e, scandendo le parole, mi disse quasi sottovoce: “Ich Doktor”. Il suo aspetto, il tono della voce denunciavano una profonda tristezza. Lo accompagnai in camera operatoria, dove già si trovava il compianto Dott. Faravelli e dove, tra poco, avrei condotto anche il Dott. Savino.
Certamente fui segnalato ai tedeschi, perché potetti spostarmi ovun¬que, anche fuori il raggio di azione, senza che nessuno mi facesse difficoltà. L‘afflusso impressionante dei feriti consigliò uno smistamento di responsabilità. Il Cappellano dello Stato Maggiore P. Mariano Restante e la Sig.na Savino furono in questo di grande aiuto. Il numero dei morti in soli due giorni (300 tedeschi e altrettanti italiani fra militari e civili) e un più grande numero di feriti dànno la misura dell’enorme lavoro al quale fu necessario sobbarcarsi. I feriti furono adagiati anche per terra, su giacigli improntati alla meglio. In breve furono riempite tutte le corsie e perfino i corridoi. Era uno spettacolo allucinante, un carnaio! Ricordare le grida di dolore e di aiuto, le strida dei bambini… sembrerebbe crudeltà; ma è doveroso dare atto allo spirito di sacrificio di tutti i sanitari e del personale ospe¬daliero, i quali lavorarono al limite della resistenza umana.
In una corsia, che avevo avuto l’accortezza di riservare ai tedeschi, due paracadutisti piangevano accanto ad un loro commilitone già in coma. Non sapevo che erano tre fratelli. Mentre mi sforzavo di consolarli, un comando secco che mi sembrò disumano li chiamò indietro. Questi si chinarono a baciare il fratello moribondo; poi, soffocando un grido straziante, si allontanarono comprimendosi il volto colle mani. Poveri figli, chissà se avranno potuto raccontare alla mamma lontana che un sacerdote di Cristo ha raccolto l‘ultimo respiro del suo figlio ucciso!
Finalmente, come Dio volle, la mattina dell’11 la lotta cessò. Ora bisognava raccogliere i morti che giacevano un po’ dovunque e alcuni in stato di avanzata putrefazione. Fu un Settembre molto afoso quello del 1943. Ci mettemmo quindi subito all’opera, e solo Dio sa le difficoltà che incontrammo e le mille precauzioni per superarle!
I morti vennero seppelliti in due grandi fosse scavate nel cimitero. Tra questi vi fu anche un vecchio frate di 85 anni, bella barba bianca in un volto dalla carnagione prodigiosamente rosea, che per oltre un trentennio era stato missionario in terra di Africa! [Era il frate cappuccino Bernardo da Castel di Tora]. Il paracadutista che lo aveva ucciso venne a dirci che era morto di paura...
In Via Edmondo Riva (come si chiama ora) fui chiamato da alcune persone con fare sollecito e mesto: in una stanza giaceva il capo di casa, morto da due giorni. Anche lui era senza cassa, coperto con un semplice velo di tulle. Da una donna seppi che nel giardino del municipio giacevano due bimbi e una vecchietta, coperti da un lenzuolo… Li trovai. Furono caricati sul camion e ci avviammo al cimitero. Il viale interno del cimitero era allora fiancheggiato da due spalliere di lilla. Già avevamo incomin¬ciato a scaricare le salme, quando giunse un uomo in bicicletta. Era molto affaticato. Mi chiese se per caso avessi raccolto due bambini. Gli risposi di sì. Proprio in quel momento i soldati ne sollevavano uno che, nell’inerzia della morte, dondolava nel vuoto e urtava nella sponda del camion. Quel signore, senza versare una lagrima, disse: “Sì, sono loro; sono i miei figli. . . Non li mettete cogli altri, dateli a me”. Li prese o, meglio, li ricevette tra le braccia con struggente affetto, uno dopo l‘altro. Li adagiò con cura tra la spalliera dei lilla, guardandoseli intensamente. Poi, facendo quasi schermo colla sua persona e con gli occhi fissi su quei due cadaveri, proseguì quasi dicesse a sé stesso: “A questi ci penso io. Li seppellirò io; nessuno me li toccherà!”.
Guardai in faccia gli sbandati. Erano rimasti sempre impassibili in mezzo a tanto dolore; ma ora tutti avevamo gli occhi lucidi di pianto.
Forse quel signore vive ancora. Io non posso nominarlo, perché non lo conosco; se lo incontrassi non lo riconoscerei. Ma io ricordo con commozione profonda, come ricordo i suoi cari bambini, mollemente adagiati tra la spalliera dei lilla.

* * *


Gli episodi potrebbero continuare nei due o tre giorni di quel pieto¬so lavoro, con il solo aiuto di pochi sbandati e della guardia municipale addetta al cimitero. Ma una figura, in quelle tristissime ore, fu vista gi¬rare ovunque, senza la pretesa di una qualsiasi ricompensa: il Sacerdote Cappuccino del Convento di Monterotondo. A lui, dopo i tragici giorni, si avvicinarono piangendo i monterotondesi a baciargli la mano, perché era stata bagnata col sangue dei loro morti.

P. Alberto da S. Rufina



Padre Egidio Valeri da Marcellina
(1911 – 1997)




La chiesa parrocchiale era prossima alla sua casa, e abitualmente il piccolo Antonio era in compagnia del parroco, ascoltava la messa del pomeriggio e la sera in famiglia, prima di cena, si recitava il Rosario. Spesso partecipava qualche persona del vicinato, che, abitualmente veniva invitata anche a cena in quella casa ampia e comoda, che aveva la porta sempre aperta. Dopo cena, in giardino, il nonno poggiava il suo bastone in un angolo e imbracciava la fisarmonica che invitava tutti in un allegro giro di ballo.
Finita la scuola elementare, una sera Antonio dice a papà Lorenzo, di voler entrare nel Seminario dei cappuccini a Velletri. Ne aveva già parlato alla mamma da tempo e aveva aspettato soltanto di finire le elementari. Fu una decisione sofferta, ma i genitori dissero sì. La sorella Angela ne soffrì più di tutti perché legata al fratello di un affetto così grande che a distanza di anni, padre Egidio poté dire: “Penso che nessun’altra sorella e fratello si siano voluti così bene quanto noi”.

Zio barba

La nipote carissima, Anita Salvatori, custode affettuosa della memoria dello zio, cosi ricorda:: “Padre Egidio per me era ‘Zio barba’. L’ho sempre chiamato così, da bambina fino a quando l’ho assistito nell’ultimo istante della sua vita. E così sempre sarà per me. Come sorrideva e mi guardava, tenerissimo, ogni volta che glielo dicevo! Caro zio barba!
Ogni volta che tornava a Marcellina, nella casa paterna, era una festa. Aveva per tutti, parenti e paesani, un sorriso, una risposta ad ogni problema. Molte volte pronunciava brevi sentenze in latino che poi traduceva in italiano. Sono rimaste proverbiali le sue calde e vigorose strette di mano.
Durante l’ultima guerra le sue visite si fecero rare, ma ogni tanto arrivava una sua lettera scritta con quella bella grafia da amanuense. Gustose quelle scritte a mio padre, notoriamente repubblicano, perché padre Egidio vi disegnava sempre intorno tralci di edera e le colorava in verde. Zio Amanzio fu preso prigioniero dai tedeschi e per molto tempo non si seppe che fine avesse fatto. Tutti eravamo preoccupati e pregavamo la Madonna addolorata che ce lo restituisse vivo. Il 31 agosto padre Egidio venne a casa e trovò la mamma disperata per questo figlio del quale non si sapeva niente da tanto tempo. La mattina seguente si alzò presto, disse alla mamma di preparare gli gnocchi per il pranzo perché sarebbe tornato Amanzio. Poi uscì, percorse a piedi i tre chilometri fino alla stazione e aspettò tutti i treni del giorno, dalle otto alle diciassette. Da quell’ultimo treno scese, finalmente, il fratello Amanzio.
Aveva anche un fine senso dell’umorismo e la battuta signorilmente allusiva. Eravamo in macchina quel giorno sulla via Salaria diretti a Roma. Ad un certo punto mi pregò di sorpassare una macchina che poco prima, suonando rumorosamente il claxon, ci aveva superati. Accelerai e quando fui a fianco di quella macchina, zio barba mise fuori il braccio mostrando l’orologio. La reazione era prevedibile. L’altro ci costrinse a fermarci e gridò: Frate, perché quel gesto? Rispose: Ognuno mostra quello che ha. Quel signore poco prima, vedendo il frate, aveva fatto le corna”.

Un uomo di Dio

Padre Egidio era stato ordinato sacerdote nel 1934. Fu più volte superiore: a Veroli, a Roma SS.ma Concezione, a Monterotondo, a Tivoli. Gli anni della giovinezza e della prima maturità li dedicò alla formazione degli aspiranti alla vita religiosa dei cappuccini, fu infatti educatore, insegnante, più volte direttore nel seminario di Veroli. Molti confratelli lo ricordano con gratitudine come colui che li aiutò a discernere la chiamata di Dio. Fu apprezzato direttore di anime, confessore e padre spirituale di diversi Istituti religiosi.
Padre Egidio aveva un fare garbato, signorile. Lo si ascoltava e si parlava volentieri con lui, perché amava arricchire il suo dire con aneddoti, frasi e detti celebri pieni di arguzia e saggezza.
Andando avanti negli anni la sua vita interiore si approfondì. Alla scuola della sofferenza il suo spirito si purificò e si affinò sempre di più. Crebbe progressivamente in un rapporto umano sempre più cordiale, comprensivo, tollerante e amichevole. Modellò la sua volontà secondo i misteriosi disegni di Dio con ammi¬revole spirito di abbandono alla divina Volontà. Alzando spesso gli occhi al cielo ripeteva con convinta adesione la celebre frase di santa Teresa: "Piace a Te, piace a me".
Era divenuto consigliere e amico di molte persone, in particolare a Monterotondo, dove trascorse un lungo periodo della sua esistenza. Per tutti aveva una forte, calorosa stretta di mano, una parola rassicurante, una perso¬nale attenzione. I bambini e i giovani lo accostavano volentieri perché apprezzavano in lui, pur avanti negli anni, uno spirito giovanile. Sapevano che entrando nella chiesetta del convento, avrebbero trovato padre Egidio nella penombra del coro, che li aspettava per una bacio, una carezza, una parola saggia e gioiosa e una preghiera. Lo circondavano, d’estate, seduto all’ombra di fronte al verde del bosco, dove amava incontrare le persone, giovani e adulti, e passare lietamente e saggiamente un tempo che ridava fiducia e pacata serenità.
Si dedicò con zelo alla cura dell'Ordine Francescano Secolare. Era una persona ordinata, precisa, lo testimonia la sua grafia, chiara, nitida, lineare. Aveva un amore grande per Gesù eucaristia. Nutriva particolare devozione verso la Vergine santa. Amava coltivare i fiori con i quali ornava l’altare. Preparava le sue prediche con scrupolo, curando anche i particolari. La sua parola dall’altare fu sempre dignitosa, misurata, vitale. Per questo la sue messe erano frequentatissime. Tante famiglie di Monterotondo sono nate da lui benedette e tanti bambini hanno ricevuto da lui il Battesimo e la prima comunione.
Nell’ultima malattia, quando fu ricoverato nell’ospedale di Monterotondo, si prospettò l’opportunità di portarlo nell’infermeria dei cappuccini a Roma-Centocelle, dove sarebbe stato assistito al meglio. Padre Egidio avrebbe desiderato tornare nel suo convento, con i suoi frati e i suoi devoti. Ma il 4 ottobre, festa di san Francesco d’Assisi, molto cara ai monterotondesi, la processione con la statua del santo stava passando sotto l’ospedale, padre Egidio chiese di essere aiutato per affacciarsi alla finestra. Così ricorda la nipote Anita, che lo assisteva: “non si reggeva in piedi, temevo che mi cadesse. Riuscì ad appoggiarsi al bordo della finestra e vedere la statua di san Francesco trasportata dalla gente e tutta la processione. Alla fine, con una espressione che non saprei definire, tanto era bella, con un filo di voce mi disse: ‘Andrò a Centocelle, anche se so che sarà l’anticamera della morte. Io ho fatto voto di obbedienza’. M’inginocchiai davanti a lui e tutti e due, commossi fino alle lacrime, recitammo insieme il Magnifica e tre Ave Maria”.
Molte persone, specialmente le donne dell’Ordine Francescano Secolare, si offrirono di assisterlo in un appartamentino già pronto nel convento. Ma si credette opportuno, date le condizioni del paziente, trasportarlo all’infermeria dei cappuccini a Centocelle.
Qui padre Egidio ha passato gli ultimi giorni della sua vita operosa di uomo di Dio. La nipote Anita racconta che lo zio, a volte, riusciva a sollevarsi dal letto e, con lo sguardo fisso diceva: “Gesù, sei venuto? Gesù, ti voglio bene”. Più di una volta , mentre era seduta in fondo al letto le disse: “ma non vedi che la Madonna sta in piedi e tu sei seduta, falla sedere e falle compagnia”.
Sorella morte lo raggiunse non durante la celebrazione della messa, come padre Egidio avrebbe desiderato, ma in ospedale, dove spesso ripeteva: "Gesù. Gesù...". Era il 17 giugno 1997.
Il Rione La Torraccia, dove è situato il convento dei cappuccini, in occasione dei funerali che furono fatti nel Duomo della città, affisse questo manifesto:
Caro Padre Egidio, nel momento in cui hai raggiunto la Casa del Padre, i Monterotondesi, ed in particolare gli abitanti del Rione La Torraccia, ti salutano e ti dicono grazie per i tuoi innumerevoli consigli e per le parole di amore e di conforto che hai sempre avuto per ognuno di noi. Possano le nostre preghiere alleviare almeno in parte, il dolore dei tuoi familiari, della Comunità Francescana e dei tuoi innumerevoli amici. Ciao. Il Rione Torraccia.

                                                                                                                                    R.C.
                                                                                                                                    *****

Le sue sentenze

* Tu fai il bene, penseranno gli altri a interpretarlo male, ma il merito nessuno te lo toglierà.
* Il numero tre: tre A: Allegria, Amore, Amicizia
tre M: Molto pregare, Molto soffrire, Molto lottare per andare in Paradiso
tre P. Passione, Pasqua, Purgatorio.
* Chi non ti apprezza non ti merita
* La vera umiltà consiste nel saper rinunciare alle cose che ci sono più care
* Se non ti senti sconfitta, nessuno potrà sconfiggerti
* Per essere saggi e vivere bene ci vuole un bicchiere di sapienza, un barile di pazienza, un oceano di prudenza
* Vecchio si è non quando si ha una certa età e si hanno certi pensieri. Vecchio si è quando danno fastidio i bambini che giocano e corrono, le ragazzine che sorridono allegre e i giovani che si baciano. Vecchio si è quando si pensa alla morte come al calar della sera, invece che salire verso il Cielo. Ma se pensi, se credi e ridi, se speri, allora Dio allieta la tua giovinezza, anche a 90 anni.




Padre Egidio con i ragazzi della Gioventù francescana di Monterotondo



Poesia scritta sull’orologio a pendolo nel dormitorio del convento


In questo fido ordigno attento mira:
Mira, o mortal, che l’ore tue misura.
Vedrai che il tempo passa e poco dura
E non torna il passato, benché gira:

Vedrai che un’ora dopo l’altra spira…
Ma chi l’altra veder mai t’assicura?
Dunque, di ben passarla sia tua cura
Ché n’hai da render conto il dì dell’ira.

Se in questo ben ti specchi, scorgerai
Che il tempo va rodendo i giorni tuoi
Per darti o eterna gioia o eterni guai.

Or, se un’eternità goder tu vuoi,
pensa ch’è grande e non finisce mai
Pensaci ben che viver mal non puoi.






Info: Convento Cappuccini - Monterotondo 00015 (Rm)
P.le San Francesco 1
Tel. e fax 0690627534









































































Padre Egidio Valeri da Marcellina