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Convento di Fiuggi
I Cappuccini a Fiuggi (Fr)



Il convento di Anticoli di Campagna (così si chiamava Fiuggi fino al 1911) è immerso nella solitudine e nel verde sulla strada che da Fiuggi conduce agli Altipiani di Arcinazzo, nei pressi di una collina denominata il monte, che si affaccia sulla valletta Campanica,la quale dà il nome alla chiesetta del convento.
Il nucleo più antico del convento risale alla fine del 1100, costruito dai Monaci Benedettini dell’Abbazia di santa Scolastica di Subiaco. Di quel periodo rimangono le scale in pietra dell’ingresso primitivo, un pozzo e cisterne costruite con blocchi di pietra squadrati e sovrapposti. Nel coro attuale sono rintracciabili dei resti della primitiva chiesetta dedicata alla “Madonna delle rose”.
Già nel 1451, i frati Minori Conventuali, avevano sostituito i monaci benedettini nella struttura monastica. Essi ampliarono e ristrutturarono lo stabile costruendo una modesta struttura conventuale intorno all’antico pozzo. Anche la chiesa fu rifatta dalle fondamenta e fu inaugurata il 27 maggio 1471 e dedicata alla Madonna del Monte. Ai primi del 1500 tutti i frati conventuali di quella comunità chiesero ed ottennero di vestire l’abito dei Cappuccini, i quali dedicarono la chiesa alla Madonna col titolo attuale di Santa Maria in Campanica.
Il convento è stato ripetutamente casa di noviziato e le sue mura, il bosco e l’orto ispirano silenzio e raccoglimento, perché qui sono vissuti uomini morti in concetto di santi, come i venerabili Francesco Titelmans da Hasselt, Vicario Provinciale dei cappuccini romani, che vi morì il 12 settembre 1537, Francesco da Bergamo, che vi è stato Guardiano nel 1572, Mariano da Torino, che vi fu novizio nel 1941. Nel gennaio-febbraio 1544 vi arrivò, per trascorrervi l’anno di noviziato, Felice Porri da Cantalice, il primo dei santi cappuccini.
Questo convento è stato ripetutamente soppresso dalle autorità dominanti, con la conseguente espulsione dei religiosi e dispersione dei libri e delle opere d’arte.
La prima volta è stato chiuso 1660 a seguito della decisione pontificia di ridurre il numero dei conventi. Il vescovo di Anagni, Pier Francesco Filonardi, lo affidò all’Arciprete della collegiata di San Pietro, Don Carlo Somaggi. Tornati in convento sette anni dopo, i cappuccini fecero delle migliorie nello stabile e trasformarono in cappella la stanzetta abitata da San Felice. I frati sono stati espulsi una seconda volta nel 1810 dalla soppressione decretata da Napoleone Bonaparte. Vi tornarono nel 1814 e, in seguito, lo adibirono per ospitare i giovani studenti cappuccini che seguivano i corsi di filosofia (1863).
Nel 1870 il convento fu soppresso per la terza volta ad opera del nuovo Stato italiano. I frati furono ospitati in un’ala del palazzo Falconi e nella casa del Sindaco. Nel 1876 presero in affitto il convento per 405 scudi annui e poi, nel 1879 riuscirono a ricomprarlo per 4.351 lire. Successivamente il convento fu casa di noviziato quasi ininterrottamente fino al 1969.
Negli ultimi anni dell’800, con l’intento di aprirvi un Seminario serafico per gli aspiranti cappuccini, venne notevolmente ampliato con la costruzione di un’ala est e di un’altra ad ovest. Furono ampliati il refettorio e la biblioteca e ricavati ambienti di disimpegno.
Nel 1904 il Vescovo di Anagni, Antonio Sardi, che amava trascorrere alcuni periodi di riposo in un’ala del Convento a lui riservata, nel cinquantesimo della proclamazione del dogma dell’Immacolata Concezione di Maria, fece restaurare integralmente la Chiesa, arricchendola di un nuovo pavimento, di nuove decorazioni pittoriche, ad opera di Ettore Celani, e di un altare in noce massiccio, opera del falegname ebanista Giuseppe Bottini di Anagni. Nell’ultima guerra mondiale, il convento dei cappuccini ha ospitato intere famiglie del paese (maggio 1944), soggetto a bombardamenti e razzie da parte degli eserciti belligeranti. Passato il fronte e trascorso il periodo della ricostruzione, si pensò di dare un nuovo assetto a tutto lo stabile con il totale rifacimento delle coperture e modifiche e adattamenti di ordine estetico pratico.
Ma ormai erano nate nuove esigenze sociali e il convento dei cappuccini è stato utilizzato come Casa di accoglienza, soprattutto per gruppi giovanili. Dal 1994 la struttura conventuale è disponibile per chiunque voglia ritrovare momenti di quiete e di sosta spirituale in un ambiente che invita a riconciliarsi con se stessi, con gli altri e con Dio.

Rinaldo Cordovani



San Felice da Cantalice
Il frate santo



Felice nacque a Cantalice nel 1515 da una famiglia di contadini. All’età di circa dieci anni fu mandato a Cittaducale presso la famiglia Picchi, prima come custode delle pecore e poi come contadino.
Verso i trenta anni si presentò al convento dei cappuccini di Leonessa prima e poi di Rieti, chiedendo di essere ricevuto come novizio. Ma non fu accolto e dovette tornare al lavoro nei campi. Un giorno mentre cercava di domare due buoi, improvvisamente s’infuriarono e lo travolsero. Cadde a terra e sentì passarsi sul corpo il vomere dell’aratro al quale li aveva aggiogati. Si rialzò stordito, ma senza nemmeno un graffio. Felice vide in questo un segno del cielo. Si presentò subito al convento dei cappuccini di Cittaducale. Poco dopo fu mandato a Roma e affidato alle cure di fra Bonifacio da Anticoli, il quale dichiarò in seguito che era di statura “tozzotto” e sembrava di ferro, aveva l’apparenza di un uomo selvatico e non sapeva né leggere né scrivere. Il Maestro gli insegnò alcune cose essenziali che Felice imparò a memoria. Poi lo portò con sé nel convento di Anticoli. Ma qui si ammalò di febbre ricorrente e sembrava che non dovesse più guarire. Perciò, sperando in un clima migliore, fu trasferito nel convento di Monte San Giovanni Campano dove concluse l’anno di noviziato nel 1545. Dopo brevi periodi trascorsi nei conventi di Tivoli e di Viterbo, nel 1547 fu trasferito a Roma, dove rimase fino alla morte, avvenuta il 18 maggio 1587.
Fra’ Felice per quarant’anni, fino a pochi giorni prima della morte, svolse l’ufficio di questuante prima del pane, e poi anche del vino. S’era fatto frate col voto di non toccare più pane, ma, dirà: “Il Signore m’ha reso padrone di tutti i forni di Roma”. E il pane e il vino raccolto tante e tante volte anziché riportarlo in convento, lo distribuiva ai bisognosi e ai malati che si recava spesso a trovare.
Fu cercato per la sua saggezza anche dai nobili, dai cardinali… dal Papa. E’ famoso l’aneddoto di Sisto V che incontrandolo per via voleva una delle pagnotte da lui questuate. Fra’ Felice gliene diede una nera e dura dicendogli: “Scusate, santo Padre, ma pure voi siete frate!”. La sua amicizia e i suoi incontri con San Filippo Neri per le vie di Roma, spesso erano uno spasso per la gente.
“Occhi a terra, cuore in cielo, corona in mano”, era la norma che si era dato camminando per Roma. Salutava le persone dicendo “Deo gratias”. Passava le notti in preghiera, praticava esercizi di penitenza, ma era un frate lieto. I bambini di Roma gli correvano incontro e lo tiravano per la tonaca o per il cordone o per la barba e lui insegnava loro canzonette sacre. A volte bastava una sua carezza per guarirli dai loro mali, specialmente dalla cecità. Una notte chiese alla Madonna che gli facesse tenere in braccio il Bambino Gesù. Lo ricevette tra le braccia, ma anche lui, Gesù, cominciò a carezzargli la barba, come da sempre è rappresentato san Felice, divenuto, per questo, protettore dei bambini.






San Felice da Cantalice




Venerabile Padre Francesco Titelmans
Il frate colto



Francesco nacque ad Hasselt, in Belgio nel 1502. Ricevuta una buona formazione umanistica, appena sedicenne si iscrisse all’Università di Lovanio e attese allo studio delle Arti, come studente povero, al Paedagogicum “Het Varken”. Terminato il corso delle Arti, insegnò nello stesso ateneo dialettica e fisica. Nel frattempo iniziò gli studi teologici e fu ordinato sacerdote il 3 febbraio 1523. Lo stesso anno, o quello successivo, entrò tra i francescani Osservanti del Convento di Lovanio. Dopo l’anno di noviziato gli fu affidato l’insegnamento della teologia, e negli anni 1527-28 si trovò in controversia tra gli altri con Erasmo da Rotterdam circa lo studio della Scrittura e dei Padri della Chiesa. Nel 1536, professore affermato, dopo una serie di brillanti pubblicazioni, in gran segreto si trasferì in Italia per entrare tra i Cappuccini, a Roma, dove si dedicò al servizio degli infermi nell’ospedale romano di San Giacomo Incurabili. Fervente osservante della regola di San Francesco, seguì soprattutto l’indicazione di guadagnarsi da vivere con il lavoro manuale, che propose anche ai suoi frati, quando, nel 1537, fu nominato vicario provinciale di Roma. Recatosi a visitare i frati cappuccini nel convento di Anticoli di Campagna, fu accolto con entusiasmo, ma predisse la sua morte imminente, che avvenne infatti proprio lì il 12 settembre 1537. Le sue ossa sono state raccolte e conservate in un’urna. Nel 1773 fu avviato il processo per la sua canonizzazione e fu dichiarato Venerabile. Il cronista Bernardino da Colpetrazzo scrive che il corpo del Titelmans rimase incorrotto per più di dieci anni, venerato dalla gente di Anticoli, e presso la sua tomba si verificarono anche alcuni miracoli. L’arciprete don Luca Borghese riacquistò la vista dopo aver toccato le ossa del santo frate cappuccino. Allo stesso modo, verso il 1602, la signora Laura Mancini di Anticoli riacquistò la vista dell’occhio destro. Così anche, nel 1614, la signora Caterina, guarì dal mal di gola. (Cf. D’Alatri Mariano, Santi e santità nell’Ordine Cappuccino, Roma 1980, v. I, p. 32-63).




Corridoio con il dipinto di Titelmans


Urna con le ossa di Titelmans




Padre Salvatore da Alatri
Il frate del popolo


Nella memoria e nel cuore

E’ trascorso mezzo secolo dalla morte di padre Salvatore da Alatri, eppure ancora molti a Fiuggi e ad Acuto – due splendidi paesi ciociari - ricordano quel suo camminare silenzioso, quel suo andare senza far rumore a piedi scalzi, con le “crette” (talloni screpolati) spesso sanguinanti; barba incolta, col fazzoletto tipico fratesco al collo, il bastone nocchioruto con la punta di ferro, più compagno di viaggio che aiuto nell’andare, gli incontri con un uomo buono e spiccio, attento e premuroso nell’ascolto e nell’aiuto spirituale e materiale.

Ha trascorso gran parte della sua vita nella comunità del noviziato nel convento dei cappuccini di Fiuggi. Ai giovani aspiranti alla vita cappuccina, Padre Salvatore offriva soprattutto la scuola dell’esempio; nella semplicità un po’ scontrosa e rude del suo carattere, proponeva ai giovani novizi nel silenzio, nella disponibilità, nella preghiera e nel servizio umile e senza stanchezza uno stile di vita vissuto: la santità.


Lungo la strada

Non amava far parlare di sé, preferiva passare inosservato e nel silenzio.
Le case lungo la strada vecchia che da Fiuggi porta al convento dei cappuccini, erano popolate di famiglie numerose. Quella strada per noi bambini era lo spazio del gioco, del movimento. Quando vedevamo arrivare padre Salvatore col suo passo cadenzato, istintivamente, con venerazione e rispetto, ci fermavamo ai lati della strada. Noi lo salutavamo col: “Sia lodato Gesù Cristo”, al quale lui rispondeva con un sommesso borbottio, che noi prendevamo come un “Sempre sia lodato”.. Per noi era un papà, un nonno, una persona che s’imponeva discretamente e con il silenzio alla nostra attenzione; e non solo nostra, ma di tutto il paese.
Nella mano sinistra poggiata sul petto stringeva sempre un libro nero, come se fosse qualcosa di importante ed a lui molto caro; più tardi ho saputo che quel libro era il breviario, il libro di preghiera dei sacerdoti.
Passava ogni giorno all’ufficio postale del paese a ritirare la corrispondenza per i religiosi. L’avvolgeva in un panno che legava al bastone che poggiava sulle spalle e così, passo passo, saliva verso il convento distante circa tre Km dalla città.



L’uomo di casa

Arrivava in convento puntuale per l’ora del pranzo. Si presentava al padre Guardiano, gli consegnava la corrispondenza, poi scendeva in refettorio e gustava un mezzo bicchiere di vino “per asciugarsi il sudore”. Se aveva portato con sè una buona bottiglia di buon vino che qualche amico gli aveva donato durante i suoi giri in città, era festosamente felice di offrirlo a tutti.

Padre Salvatore era nato per muoversi e rendersi utile. Affezionato al suo convento e alla sua famiglia religiosa, avvertiva l’istinto familiare di prendersi cura della casa. Era il frate cappuccino artigiano, che passava il suo tempo in casa lavorando nella sua officina, ricavata a piano terra sotto il primo arco del noviziato, in luogo fuori mano e silenzioso.

 


Il colore dei fiori e le api amiche

Aveva un carattere riservato e chiuso, era burbero e perfino scontroso, ma un animo francescanamente sensibile e quasi poetico. Il suo piccolo giardino, protetto da un cancello, era diligentemente curato e sempre pieno di piante e di fiori. Non faceva mai mancare fiori freschi e profumati all’altare della piccola chiesa conventuale, dove era conservata l’Eucaristia. Il suo giardino aveva la sua Regina, una statua di una Madonnina su una colonnina in mezzo ai fiori, vicino al muro di cinta. Allora, a Fiuggi non c’erano i fiorai, e valeva la pena salire fino al solitario convento dei cappuccini per chiedere a Padre Salvatore un fiore per la tomba dei cari defunti e una parola di conforto.
Un’altra sua passione – oltre quella per i fiori – era per le sorelle api. Aveva più di qualche arnia per il miele. Se ne prendeva attenta cura e le visitava quasi ogni giorno. Rimaneva lungo tempo ad osservare il lavoro delle api, sembrava che parlasse con loro, come san Francesco parlava agli uccelli e al lupo di Gubbio. Al momento della smielatura, Padre Salvatore non si proteggeva né le mani né il volto, e non usava nemmeno il fumo per allontanare le api. Con grande disinvoltura e semplicità scopriva le arnie, smielava, le ricomponeva con calma, e poi borbottava qualcosa di non comprensibile, che forse le sorelle api comprendevano come una richiesta di scusa per averle disturbate.

Una mano pesante

Padre Salvatore parlava pochissimo, ed anche quelle poche volte che accadeva, non era facile capire le parole farfugliate. In un giorno di festa, furono invitati a pranzo i due frati residenti nella parrocchia “Regina Pacis”, a Fiuggi Fonte. Come ogni giorno, prima del pranzo, i frati si riunirono in coro per la recita dell’Ora media. Presiedeva Padre Salvatore, il più anziano, che borbottò la preghiera d’inizio, che per i due ospiti risultò incomprensibile. Il giovane Vice parroco, padre Urbano Faraglia da Lisciano, che era in piedi appena davanti a lui, si voltò a guardarlo con meraviglia e sorpresa; la mano pesante di Padre Salvatore si abbatté sulla sua testa, tanto che si ritrovò sbalordito e seduto nel banco. Quel giorno i salmi dell’ora media non si riuscì a recitarli. La risata fragorosa di qualche novizio fu contagiosa e si dovette scendere lietamente in refettorio per mangiare in letizia.

Il sentiero per Acuto e il lupo

Oltre che a Fiuggi, padre Salvatore è ricordato particolarmente ad Acuto dove svolgeva il suo ministero sacerdotale quotidiano.
Ogni mattina usciva sempre a piedi dal convento quando era ancora buio, incurante del tempo buono o cattivo; scendeva il ripido sentiero e, attraversato il fosso, risaliva il monte di fronte, “iu carpunetto”, e andava via in montagna a svolgere il suo ministero sacerdotale ad Acuto nella parrocchia di Maria SS. Assunta in cielo, attigua al monastero delle Suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue.

La strada che percorreva a volte era un viottolo ed a volte era un sentiero appena tracciato, con sassi e rovi; raramente incontrava qualche persona, spesso, invece, incontrava animali d’ogni genere.
Ricordo con grande meraviglia che la gente raccontava con gusto la storia del frate e del lupo, accaduta su questo sentiero: una mattina, presto, percorrendo il viottolo che porta dal convento di Fiuggi ad Acuto, incontrò un lupo. Padre Salvatore si calò il cappuccio in testa, si mise camminare a quattro zampe fissando intensamente frate lupo. L’animale avvertì il gesto di umiltà e di simpatia e si allontanò quieto e silenzioso nel bosco.

La lista della spesa

La gente di Acuto ricorda ancora oggi padre Salvatore come “il frate che faceva la spesa per tutti”. Sì, perché il frate – raccontano i vecchi - tornava a Fiuggi portando con sé la lista della spesa che la povera gente gli consegnava: il giorno dopo, padre Salvatore tornava ad Acuto col suo bel fagotto appeso al bastone che portava sulla spalla: dentro c’era pane, frutta, verdura, qualche volta salame e prosciutto; sempre, in quel fagotto c’erano dei medicinali, perché ad Acuto non c’era una farmacia. Era davvero l’uomo atteso ogni giorno per soddisfare le esigenze del corpo e dello spirito.

Il popolo di Acuto, in segno di riconoscenza e per mantenere sempre vivo il suo ricordo, gli ha dedicato una memoria nel cimitero della città, vicino all’ingresso, entrando, a sinistra. Sulla stele è scritto in lettere di bronzo: “Il popolo di Acuto ricorda con affetto e gratitudine padre Salvatore, padre cappuccino, che per lunghi anni, specialmente nel triste periodo della seconda guerra mondiale, fu per tutti i cittadini di Acuto un grande benefattore, un fulgido esempio di profonda umanità, un amico sincero, un sacerdote caritatevole e di eccelse virtù, degno figlio di san Francesco. Acuto, 23, 1984. Unita ai suoi concittadini nel medesimo ricordo la Signora Necci Giuliana fa dono di questa lapide”.

Padre Salvatore, con i due centesimi avuti in dono dal buon Dio, lo ha servito nella vita di ogni giorno in umiltà senza riserve. Per questo era diventato per la gente un’ istituzione che impersonava la Chiesa, il sacerdote, il cappuccino. Per questo, soprattutto, la sua memoria è una benedizione.

Armando Ambrosi




Frate Domenico da Alatri


Il missionario e il contadino

Frate Domenico, al battesimo Vincenzo Castellucci di Luigi e di Maria Frasca, nacque in Alatri (FR) il 13 marzo 1912. Il 10 dicembre del 1928 nel convento di noviziato dei cappuccini della Palanzana (VT) vestì l’abito religioso e vi emise la professione temporanea l’11 dicembre 1929.
Dopo essere stato di comunità nei conventi di Viterbo, Ronciglione e Fiuggi, il 20 febbraio 1937 indirizzò al Ministro provinciale il seguente biglietto: «Umilmente chiedo alla Paternità Vostra di volermi concedere l’obbedienza per andare alle sante missioni in Africa Orientale. Umilmente prego di esaudirmi e di accontentare il mio ardente desiderio per il bene delle anime». La domanda fu accolta e fr. Domenico partì per l’Etiopia nel luglio 1937.

Ottimo missionario in Eritrea

Nella relazione fatta dal Superiore Regolare della Missione, padre Ippolito Cecchini da Vetralla, fr. Domenico è così presentato: «Ottimo missionario; Rimase sempre in Asba Littoria. Vide con malinconia la penosa situazione che ogni anno gli dava un nuovo superiore. Sop¬portò tutto con rassegnazione e fede. Studiò di proposito la lingua amharica e l'apprese discretamente. Non badò a strapazzi per curare la piantagione di caffè, abbastanza lontana dalla Missione, per cui le forze furono fiaccate. Seppe accattivarsi l'animo dei piccoli indigeni che ammaestrava e guidava nel canto sacro. Fu incarcerato insieme al Superiore ai primi di settembre 1941. Si trova a Tabora nel Tanganica col p. Angelo da Trevi».

Rimpatriato nell'agosto 1943, trascorse alcuni mesi nel convento di Paliano. Il primo novembre dello stesso anno fu destinato nel convento della Palanzana con gli incarichi di ortolano e di questuante. Nell'agosto 1949 fu trasferito come ortolano nel convento di Fiuggi, allora luogo di noviziato. Chiuso il noviziato nel 1969, fr. Domenico continuò nel suo ufficio di ortolano e assunse anche quello di cuoco. Suonava discretamente l'armonio e, in mancanza di altri, soleva accompagnare i canti della Messa. Conosceva a memoria quasi tutto il salterio.
Foto: Gruppo di Missionari in partenza per l’Eritrea 1937 (secondo da sinistra fila in piedi)

Preghiera e lavoro

Fr. Francesco Celani che risiedette nel convento di Fiuggi dal luglio 1973 al luglio 1982 ha delineato così il profilo di fr. Domenico: «Dovendo parlare di fr. Domenico non è facile descriverlo per quello che è stato. Egli nel suo atteggiamento semplice e dimesso nascondeva una ricchezza interiore non comune. Non si esagera se si afferma che egli è stato un autentico cappuccino, completo sotto ogni punto di vista. Dotato di intelligenza pronta, di tenace memoria e di fine sensibilità, ha affrontato la vita religiosa con vero senso di responsabilità. Dedito alla preghiera in modo singolare, egli pregava in continuazione, e spesso durante le notti si trovava in chiesa. Da tutta la sua persona traspariva qualcosa di mistico e questo specialmente nella partecipazione alla santa Messa. Affrontava i vari lavori dei fratelli (cucina, orto e cantina) con esattezza e diligenza esemplari. Sempre caritatevole con i confratelli, che cercava di far contenti in ogni circostanza. Era di poche parole; amava parlare più con l'esempio improntato ad umiltà e riservatezza. Aveva grande carità coi poveri cui veniva incontro come poteva, senza far pesare il suo aiuto. Nei suoi acciacchi di salute, che non sono mancati, tutto sopportava senza lamentarsi con animo sereno ed accettando tutto dalle mani del Signore. Egli lascia dietro di sé un esempio di tanta bontà e virtù quale vero fi¬glio di San Francesco».
Rimase a Fiuggi fino al il 5 ottobre 1993, giorno della sua morte, arrivata, dopo circa un anno che gli era stato riscontrato un tumore.
Il Provinciale, colloquiando con lui, quando già era grave gli chiese cosa avrebbe voluto dire ai frati se ne avesse avuto la possibilità, rispose: «Direi di amarsi, perché i frati a volte non si amano». Lo invitò a pregare per le vocazioni, e lui rispose: «Io prego per i frati che già ci sono affinché siano genuini, autentici, trasparenti. Se i giovani vedono autenticità, allora verranno con certezza».

Aspettando il Padrone

Padre Mario Fucà, allora vicario della piccola comunità, il giorno del funerale, ha voluto raccogliere in una paginetta i ricordi di tanti presenti e raccontarlo così:
«Il silenzio, le pietre, la terra.... entrando dal cancello del convento si aveva l'impressione di arrivare in un luogo disabitato... poi, per incontrare qualcuno, ci si lasciava guidare da qualche segnale... come quel regolare colpo di zappa e, all'improvviso quella figura che veniva da altri tempi: un cappellaccio, una folta barba bianca, una tunica rozza e un paio di sandalacci... chi era? L'«Ortolano del Convento» era la definizione che fr. Domenico dava di sé, nascondendo in quelle tre parole gran parte della sua vita.
Incontrarlo per la prima volta impressionava: austero, di poche parole, sorridente, assorto in preghiera, con gli occhi persi nel vuoto e il cuore preso da Qualcosa da cui niente poteva distrarlo.
Quanti ricordi per chi lo ha conosciuto: quei sacchi di granturco caricati su un mulo come niente fosse... quella verdura tratta con amore e pazienza dalla terra e distribuita a tanti...
E quelle sue solite quattro parole. La saggezza e l'ironia. «Come stai?». «Come mi vedi» rispondeva. «Quanti anni hai? «Ormai gli anni non li conto più». «Che fai?». «Aspetto il Padrone», rispondeva negli ultimi mesi. E le sue solite battute. Il venerdì: «Perché il mare è salato?... perché c'è il baccalà». La sera, passato un altro giorno, «Che cos'è la notte?... solo un’ombra». Assalito da qualche dolore esclamava «Che guaio!» e aggiungeva: «Qual è l'animale con più guai?... la volpe che fa sempre: guai... guai...».

Padre Mario Fucà



Mons. Vittorio Biagio Terrinoni
Il frate vescovo


Il primo di sette

Papà Andrea a mamma Maria educano i loro sette figli, il primo dei quali è Vittorio – il futuro padre Biagio - secondo la tradizione ricevuta dai loro genitori a Fiuggi, una paese che ancora non era meta di turismo e di cure idroponiche, come oggi.
Un’educazione tradizionale fatta di poche cose: la preghiera, la Messa ogni domenica, il timor di Dio, il lavoro quotidiano e il rispetto per gli altri. E a nessuno dei figli viene in mente di non attenersi a queste regole semplici e fondamentali.
Questo orientamento di onestà e di impegno resterà sempre impresso nella mente e nel cuore del ragazzo Vittorio, e poi del novizio, del giovane sacerdote e del vescovo. I valori ideali della famiglia cristiana che, molto più tardi, il Pastore dei Marsi proporrà negli scritti e nelle omelie (quali l'amore e la fedeltà coniugale, la semplicità di vita e di rapporti umani, la fraternità, l'ospitalità, la solidarietà, l'accoglienza, il sacrificio, il servizio...) affondano le radici nell'humus della sua famiglia.
Aveva sette anni quando il padre gli affida un gregge di un centinaio di pecore e tre cani pastori. Con il cuginetto di nome Biagio trascorre i giorni e le notti più in campagna e in montagna che in casa. I due ragazzi, sugli altipiani di Arcinazzo non si annoiano. Hanno i cani per giocare e la loro fantasia per inventare le situazioni più fantastiche. Quando arrivana la polenta di mamma Mariuccia, allora davvero era una festa grande.
Sulla via che da Fiuggi porta ad Arcinazzo, c’è il convento dei cappuccini, e in famiglia Vittorio aveva uno zio paterno, padre Elzeario, cappuccino. E’ a lui che il ragazzo si rivolge per confidargli il suo desiderio di diventare fratte cappuccino come lui. Era il 24 febbraio 1930, quando parte per il Seminario serafico di Veroli. Papà Andrea ha il cuore in gola e mamma Mariuccia non dice niente, ma nel segreto prega per questo figlio che va lontano. Due anni dopo, il 3 ottobre 1930, Vittorio veste l’abito dei Cappuccini nel convento viterbese della Palanzana e cambia il nome di battesimo in fr. Biagio da Fiuggi.
La vita del convento fatta di discipline, orari e forme penitenziali non gli costa un gran che, perché in famiglia era stato abituato a questo stile di vita; fin dai verdi anni aveva dovuto ripartire il tempo della giornata tra scuola e lavoro. Adesso, in convento, tutto risulta facile; il frate cappuccino viene fuori senza fatica: un frate interiormente robusto, con una solida spina dorsale, allenato agli esercizi ruvidi della vita, al duro lavoro e al sacrificio; un frate ricco di sensibilità e di attenzioni verso le esigenze altrui.
Compiuti gli studi filosofici e teologici, viene ordinato sacerdote a Viterbo nel 1940.
Padre Biagio è di indole forte e docile, di buon cuore, incline per dono di natura a farsi accanto all’altro, soprattutto quando vi sono pene e pesi di vita da condividere. Ti si presenta sempre col sorriso sulle labbra e con un volto rassicurante, anche quando le spine e i cardi della sofferenza fisica e morale lo pungeranno in forma acuta; sempre uguale di umore, felice di servire il Signore e il prossimo, pronto a qualsiasi sacrificio.
Un cuore grande che resta facilmente affascinato dagli alti ideali: ama leggere le biografie dei Santi per proporli come modelli riusciti a se e agli altri. E’ anche ben consapevole dei suoi limiti e difetti, perciò con modestia e semplicità gradisce incontrare e confrontarsi con gli altri, consultare, ascoltare, imparare, correggersi.

Scorrendo l’abbondante letteratura che lo riguarda si ha la netta impressione di trovarci alle prese con una persona che ha articolato la vita sul coraggio, sulla speranza, sull'impegno di vivere ogni giorno nella fedeltà ai doveri e sul vivo desiderio di offrire una testimonianza di vita semplice e operosa. Si colgono facilmente le linee operative del suo programma personale: non fermarsi alle parole, ma passare decisamente dalle parole ai fatti; fatti intesi non come attivismo, bensì come gesti concreti da compiere quale risposta fedele ai doveri quotidiani. A un intimo amico, un giorno confidò: "Ho impostato la mia vita sull'impegno arduo, perciò non devo aver paura di ideali che vale la pena spenderci con generosità le mie energie".
Appena eletto vescovo imprime un ritmo accelerato alla sua attività pastorale nell'ardente aspirazione di donarsi generosamente ad ogni richiesta da qualunque parte giunga. Il suo servizio pastorale si concretizza soprattutto in numerose opere di carità espresse nei confronti dei più bisognosi: alcolisti, tossicodipendenti, portatori di handicap, anziani, carcerati, malati di Aids.
Ecco come lui stesso si esprime al riguardo: "Oggi, urge che diventiamo generosamente prossimi di ogni uomo e rendiamo servizi con i fatti, a colui che ci passa accanto: vecchio da tutti abbandonato, lavoratore straniero ingiustamente disprezzato, emigrante o fanciullo nato da unione illegittima, che patisce immeritatamente per un peccato che non ha commesso, o affamato che richiama la nostra coscienza, rievocando le parole del Signore: "Quanto avete fatto ad uno di questi minimi miei fratelli, l'avete fatto a me".

Il frate cappuccino

Padre Biagio ha amato sempre la sua vocazione e l’Ordine cappuccino, però non si è mai chiuso elusivamente in questo contesto religioso; al contrario, ha aperto la sua mente e il suo cuore all'incontro e al dialogo fraterno con tutte le altre componenti francescane. Per lui era sempre una vera festa incontrare un francescano e, in ogni convento, dovunque si trovava, si sentiva subito come a casa sua.
Quando è stato eletto vescovo, non ha lasciato il suo Ordine religioso e la sua Provincia romana, ma ha semplicemente "cambiato stanza" per rimanere quel frate cappuccino che era stato fin dal suo ingresso nell'Istituto; frate semplice, cordiale, sempre contento, pronto al sacrificio, disponibile a collaborare e ad assumersi gravose responsabilità.
Lasciandosi andare in una confidenza, diceva: "Proprio perché il Signore mi ama e mi ha chiamato a seguirlo e, nonostante le mie molte lacune, ha fiducia in me, si sente autorizzato ad esigere sempre molto da me". Padre Biagio con i genitori e il fratello padre Ubaldo

Ben consapevole di aver fatto dono di tutto se stesso al Signore, gli risultava logico che questo dono non fosse misurato o calibrato, ma fosse generoso sempre, in momenti facili e difficili. Le ardue esigenze evangeliche sono rimaste per lui come una delle dimostrazioni più efficaci dell'amore di Dio nei suoi confronti.

A questo frate di certo non fa difetto una visione positiva della vita! La gioia, l'ottimismo e la speranza hanno contrassegnato la sua intera vicenda terrena. La conferma inequivocabile si ha dai frequenti riferimenti al "canto" e alla "gioia”' nei suoi scritti. Eccone alcuni titoli: "Anche tu, come i Santi, canta la gioia", "La calma sorgente di gioia", "Cristo nostra gioia". Addirittura dedica a questo argomento una lettera pastorale dal titolo "Cantiamo la gioia".

In un interessante articolo esalta la virtù della semplicità e tratteggia l'identikit della persona semplice: "Il semplice è dovunque e con chiunque sempre modesto; è cosciente dei suoi limiti e vive un' incantevole trasparenza di vita e limpidezza di spirito; è schietto, sincero, ricco di cordialità, di benevolenza e di cortesia. Stabilisce rapporti umani sulla linea di una forte carica umana, e non si smarrisce se questi dovessero farsi difficili o dovesse emergere qualche durezza o incomprensione o sfiducia; non si mostra ferito per qualche offesa, non si nutre di pettegolezzo, non punta il dito su eventuali debolezze di un fratello. E' semplice chi è riuscito a trovare un principio unificatore della propria esistenza, un punto di riferimento verso cui orientare tutto. Questo centro è Dio; bisogna fare tutto per lui, altrimenti è inutile il nostro affannarsi quotidiano".

Si deve convenire che da vero frate minore, Padre Biagio ha recepito l'insegnamento di san Francesco in merito a questa virtù, alla quale il santo di Assisi teneva tanto. Il serafico Padre indicò le virtù di alcuni suoi frati, desiderando che fossero praticate nel suo Ordine. Anche nella vita e negli scritti di Padre Biagio si riscontra la virtù della semplicità: egli procede in modo lineare, chiaro e trasparente; si ritrova un lui il biblico cuore sincero, cordiale, modesto e sempre bene armonizzato con una vita fatta di coraggio, di impegno e di dedizione generosa.

Il frate e il vescovo del popolo

Padre Biagio inoltre ha saputo trovare il tempo e l'occasione per essere e rimanere Il frate e il vescovo del popolo come insegna la tradizione cappuccina. Non solo essere disponibile per chiunque vuole incontrarlo, ma concretamente desidera stare accanto agli ultimi per ascoltarli, aiutarli e così farli sentire meno soli; ama raggiungere a piedi la cattedrale per avere l'occasione di incontrare gente e scambiare una parola con lo spazzino, con il rivenditore ambulante, con gli addetti ai lavori stradali, con i vecchi e i bambini, con le mamme e i papà, con tutti coloro che incontra durante l'arco della giornata. A tutti dà importanza e offre attento ascolto.

Questo stile di vita pastorale semplice e concreto, intenzionalmente e non, cerca di affidarlo anche ai suoi scritti. Così, per esempio, raccomanda ai religiosi e ai sacerdoti "lo spirito di servizio", privilegiando gli ultimi e i più bisognosi; affida ai sacerdoti l'impegno di essere maestri "di tutte le categorie e di tutti i momenti, facendosi carico delle esigenze di ciascuno e adattandosi a colui che viene a bussare alla porta del cuore". "E' sempre urgente, è indispensabile fermarsi, da buon samaritano, dinanzi a un fratello che soffre, qualunque siano i motivi. Così si esprime in una "Lettera pastorale alla diocesi" -. Fermarsi però non significa curiosare, bensì rendersi sensibili, attenti e disponibili al fratello che soffre. Buon samaritano è colui che tende la mano ad ogni bisognoso per aiutarlo, consolarlo".
Non appena giunge alla diocesi di Avezzano dà subito vita a molte iniziative dirette a imprimere uno straordinario dinamismo pastorale ai sacerdoti, ai religiosi e ai fedeli più impegnati. Si serve volentieri dei mezzi di comunicazione di massa per arrivare a tutti; stampa: articoli, lettere pastorali, messaggi di vita ecc; radio: con la rubrica "Buongiorno Abruzzo" svolge la catechesi per adulti; televisione locale: conduce la rubrica "Il tuo popolo". Non lascia di intentato nulla per arrivare a un più alto numero di fedeli. Scrive al riguardo A. Razzano: "Dai suoi scritti emerge con chiarezza la prima ed essenziale sollicitudo dell'evangelizzazione, del Padre che nutre il suo popolo con la Parola di Dio, mai adulterata, mai populista, mai demagogica, sempre fedele al deposito ricevuto e custodito con amore".

Il 13 marzo 1990, Padre Biagio celebra il suo 50° di sacerdozio. Alla concelebrazione eucaristica in cattedrale sono presenti molti fedeli, numerosi confratelli cappuccini, alcuni Presuli e anche l'arcivescovo Vincenzo Fagiolo, il quale nell'omelia dice tra l'altro: "La fausta ricorrenza del 50° di ordinazione sacerdotale del padre e pastore di questa vetusta ed insigne diocesi dei Marsi ci aiuta - in linea con quanto fin qui abbiamo ricordato - ad approfondire l'insegnamento degli apostoli come ce lo ha ripresentato il Concilio Vaticano II°, e ci sollecita a vivere quell’effettiva ed affettiva comunione con il capo della chiesa locale che per volontà di Cristo Gesù è stata affidata alla sua cura pastorale (...).

Sull'esempio di Cristo diaconus omnium factus, con l'insegnamento, l'azione liturgica e la guida pastorale monsignor Terrinoni, mai cedendo a mondane tentazioni, si è adoperato quotidianamente a far conservare e a far vivere quelle sane tradizioni di religiosità popolare e di fede cristiana che per secoli hanno caratterizzato positivamente, anche nel campo sociale e civile, la gente dei Marsi. E' stato e tuttora rimane il maestro autentico di fede cristiana".

La lunga e laboriosa "giornata" terrena di Padre Biagio si chiude il 15 aprile 1996. II suo tramonto è intrecciato di preghiere e sofferenze per la malferma salute. Nei 6 anni di dimora nell'infermeria a Roma-Centocelle, egli va lentamente, sia pur dolorosamente, distaccandosi dagli impegni pastorali per dedicarsi esclusivamente alla preghiera, quale essenziale "lavoro" dell'apostolato che continua.
Monsignor Remigio Ragonesi, vicegerente di Roma, ha presieduto la concelebrazione eucaristica del funerale e ha concluso l'omelia con queste parole: "Tra pochi giorni Padre Biagio avrebbe celebrato il 25° di episcopato, ma il sommo ed eterno Pastore anziché lasciargli condividere una festa che, certamente sarebbe risultata calorosa e affettuosa, ben altro gli ha preparato: la corona che non marcisce riservata ai suoi operai fedeli e ai suoi pastori zelanti".

Padre Enrico D’Artibale




Info: Convento Cappuccini - Fiuggi Città 03014 (Fr)

Per informazioni amministrative email: pr.romana@ofmcap.org
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Fiuggi il Ponte dei Cappuccini




Cartolina di inizio secolo XX. Il cappuccino distribuisce la minestra a i poveri sul piazzale del convento





Frate Domenico da Alatri



1937 Missionari in partenza per l'Etiopia
(Fra' Domenico il secondo in alto a sinistra)



Casco coloniale e maschera per la smielatura delle api




















Con il Papa Giovanni Paolo II





Con i genitori e il fratello Padre Ubaldo





Padre Mariano con il Parroco P.Biagio




P. Mariano in una conferenza al teatro delle Fonti